Stimolato dall’invito ad un dibattito on line dal titolo “RIPENSARE LE POLITICHE SOCIALI” nelle Marche provo a riformulare quanto ho detto con riferimento ad un argomento di cui, forse, qualcosa ho imparato fin dal 2004, anno in cui o cominciato ad occuparmi stabilmente, per lavoro, di integrazione tra sociale e sanitario… una dimensione molto importante per la salute dei cittadini perché è difficile stabilire il “confine” tra il “sociale” e il “sanitario”, soprattutto per le persone più fragili: minorenni, disabili, persone con problemi di salute mentale o di dipendenza patologica, anziani non autosufficienti… e soprattutto perché la normativa nazionale divide le competenze degli interventi: il “sociale” ai Comuni, il “sanitario” alle Aziende Sanitarie Locali (nelle Marche all’ASUR); soggetti che hanno natura e strutturazione organizzativa e operativa profondamente diverse.
L’integrazione tra sociale e sanitario, per questi e per altri motivi (istituzionali, finanziari, culturali, politici, professionali…), è difficile da realizzare, ma è fondamentale; tendendo presente che la sua attuazione non può essere demandata ad una sola persona, ma è indispensabile la collaborazione orientata in modo unitario di tanti soggetti, pubblici e no.
Recentemente, il presidente regionale delle ACLI, Maurizio Tomassini, ha scritto sul suo profilo FB: INTEGRAZIONE SOCIO-SANITARIA – La abbiamo abbandonata.
Io ho commentato/risposto che “Usare la prima persona plurale è molto giusto”.
L’integrazione tra sociale e sanitario (a me non piace l’espressione “integrazione sociosanitaria” perché non la ritengo rispettosa delle due dimensioni costitutive) non l’ha abbandonata solo la Regione, nonostante un DPCM 12/1/2017 molto chiaro ed esplicito, da attuare e da declinare concretamente nei territori, che è stato recepito solo formalmente. L’hanno abbandonata anche i territori:
– sul versante sanitario smantellando il poco rimasto dell’assistenza territoriale (Consultori familiari, UMEE e UMEA – i servizi per la disabilità – sono tra le risorse più martirizzate);
– sul versante sociale diminuendo progressivamente i rapporti con la Sanità per paura di essere “inglobati” e chiudendosi in una nicchia fatta di REI (Reddito di Inclusione), povertà e servizi residenziali e semiresidenziali “sociali-sociali”;
– sui territori con Ambiti Territoriali Sociali (ATS) e Distretti Sanitari che, a parte pochissime situazioni positive, basate unicamente sulla testardaggine di qualche Coordinatore e Direttore di Distretto, le opportunità di reale integrazione tra sociale e sanitario indicate e supportate dalla Regione non sono state mai prese sul serio, perché costringerebbero ad abbandonare le rispettive “vite di rendita” e a costruire, realmente, una modalità nuova di lavoro e di organizzazione dei servizi.
In particolare i politici regionali e gli amministratori locali si sono distinti per “miopia”, o “cecità”?, oltre che ignoranza profonda, aggravata in troppi casi dalla mancanza di volontà di conoscere e capire.
L’esperienza del COVID-19 ha esasperato le difficoltà, le inadempienze, le disfunzioni
Mi viene da dire che nel pandemonio, più che nella pandemia, in cui siamo è sempre più indispensabile mettere al centro la persona (soprattutto quella in situazioni di fragilità) nella sua “unità” e, quindi, è sempre più urgente e essenziale costruire una corretta integrazione sociale e sanitaria.
Accenno soltanto ad alcuni degli elementi “emersi” o “esasperati” dall’esperienza del COVID-19:
– “distanziamento sociale” vs “distanziamento fisico”: la prima espressione, proposta in modo massivo ed ossessivo dalla politica e dai mass media è un evidente segnale di approccio culturale sbagliato, perché la pandemia ci ha fatto capire che abbiamo MOLTO più bisogno di “vicinanza sociale”, di inclusione, nel rispetto delle distanze per limitare i rischi di contagio;
– l’“isolamento” vissuto ha fatto sperimentare a TUTTI le conseguenze sulla “salute mentale” di ognuno di noi; pensiamo la sofferenza maggiore di chi vive da solo, delle famiglie che hanno a casa persone con disturbi psichiatrici, disabilità gravi… ma pensiamo anche ai bambini e ai bambini nelle famiglie “difficili”…;
– la “sospensione” degli interventi domiciliari (di cui la Regione Marche è già molto carente) e la necessità di ripensare e rafforzare “servizi di prossimità”. Fa tristezza leggere “linee guida per l’educativa territoriale a distanza”, o vedere tentativi di “interventi riabilitativi online”, se non altro perché, nonostante l’impegno degli operatori, oltre a non funzionare con tutti, funzionano molto poco, quasi niente, con gli altri;
– sulla stessa linea la chiusura (sine die?) dei servizi semiresidenziali richiede un forte supplemento di pensiero creativo, se si vuole ipotizzare una riapertura che non si limiti a “scimmiottare”, per analogia, soluzioni “turistiche” per: plexiglass(?) e distanza tra i tavoli dei ristoranti o negli chalet al mare…
– la clausura e i rischi di contagio nei servizi residenziali è un altro attualissimo tema (ri)messo in agenda dalla pandemia. Le Residenze Protette e le Residenze Sanitarie Assistenziali per Anziani che sono risultate più “a rischio” COVID-19 sono state quelle piccole, ma, questo non deve essere un “assist” del virus alle strutture grandi. Queste strutture non sono state più colpite perché erano più piccole, ma, forse, perché erano quelle dove la qualità dell’assistenza era già più bassa prima della pandemia… e questo (ri)propone la questione dei controlli.
Quali orientamenti per un, possibile, welfare futuro?
L’attenzione per un welfare futuro, secondo me, deve essere quella di tradurre in modo operativo (e si può fare) quello che non è uno slogan, ma un possibile obiettivo anche per l’integrazione sociale e sanitaria: “mantenere la distanza fisica, aumentando la vicinanza sociale”.
Alcune, iniziali, declinazioni:
– la necessità di una solidarietà familiare e di un vicinato sociale è cresciuta, per cui dobbiamo formarci a questo. Penso, come esempio, all’affidamento familiare, che conosco bene e al percorso di formazione per le reti familiari e la ricerca finalizzata a proporre nuove prassi per l’affidamento familiare, che si sta realizzando da parte delle diverse associazioni che si occupano di affidamento nella Regione Marche;
– ripenso, con amarezza, alla contestazione fatta dagli Enti Gestori in fase di approvazione dei nuovi requisiti di autorizzazione per le strutture sanitarie, socio-sanitarie e sociali, perché i metri quadrati previsti dalla Regione in relazione al numero di persone accoglibili erano “troppi”… per cui sono stati approvati numeri più bassi permettendo anche una maggiore concentrazione di posti letto in una stanza… adesso cosa si dovrà fare?
– l’obiettivo deve rimanere mantenere “numeri piccoli” per queste tipologie di strutture, compensando la “perdita” di economie di scala con una gestione associata di strutture diffuse. In questi anni la Regione si è mossa in un’altra direzione, quella dei “grandi numeri”, che sembra essere confermata dall’esperienza della pandemia, ma non è così; questa tendenza va controbattuta puntando sulla qualità;
– ma quale qualità? Una qualità relazionale/qualità sociale; a partire dalla corretta interpretazione dei criteri di accreditamento previsti dalla recente normativa regionale e da un accompagnamento formativo per sviluppare un’applicazione non adempimentale e solo nella logica “prestazionale”, ma di “sostanza” per una migliore qualità della vita delle persone accolte.
Come far ripartire nelle Marche le politiche per l’integrazione tra sociale e sanità
In mancanza di una diversa legge nazionale è necessario “obbligare” i territori marchigiani a collaborare e ad integrare il sistema dei servizi sanitari con il sistema dei servizi sociali. Spesso c’è la buona volontà degli operatori sociali e sanitari, altrettanto spesso c’è la diffidenza e la reticenza con la conseguenza di sprechi, sovrapposizioni, disfunzioni… oltre alla già citata “miopia” dei politici/amministratori locali e ad un ruolo non sempre definito e chiaro dei soggetti del “terzo settore” e, soprattutto, ad una presenza di un “privato for profit” sempre più aggressivo nell’area sociosanitaria.
Precondizioni per riprendere correttamente il filo di una integrazione tra sociale e sanitario nelle Marche, sono:
– promuovere una programmazione unitaria, sanitaria, sociosanitaria e sociale, di livello regionale e locale, per cui va abrogata, o almeno molto modificata, la legge regionale 34/2014 “Sistema regionale integrato dei servizi sociali a tutela della persona e della famiglia” che dopo 14 anni ha recepito la legge nazionale (328/00) mortificando l’integrazione sociale e sanitaria, anche perché ha disposto, di nuovo, a livello regionale e locale la separazione della programmazione sociale da quella sanitaria e socio-sanitaria;
– ristabilire la coincidenza territoriale tra Distretti Sanitari e Ambiti Territoriali Sociali;
– attivare la definizione di protocolli e, soprattutto, di Percorsi Diagnostico Terapeutico Assistenziali Sociosanitari (PDTA+S) validi in tutti i territori per la prendersi cura delle persone fragili;
– promuovere la formazione e l’aggiornamento comuni degli operatori sociali e sanitari sia per la applicazione dei PDTA sociosanitari che sulle modalità di presa in carico;
– definire un budget socio-sanitario territoriale, dove confluiscano specifici fondi sociali e sanitari dedicati alla gestione unitaria tra l’Ambito Territoriale Sociale ed il Distretto Sanitario degli interventi sociosanitari per le persone fragili, con la prospettiva di arrivare ad un budget socio-sanitario personale, calibrato sui bisogni di assistenza e cura di ogni persona, così da garantire risorse per il “progetto di vita” di ognuno.
I cittadini, dopo il COVID-19 sono più consapevoli della necessità dell’integrazione tra sociale e sanitario?
Forse no, ma il tema della partecipazione (reale) dovrebbe essere a cuore (se non altro in relazione alla ricerca del consenso) ai politici marchigiani… ma su questo i cittadini dovrebbero essere più “esigenti”.
Anche il tema della partecipazione delle formazioni sociali e dei cittadini alla sanità e al sociale è diversificato nella situazione attuale.
Per la sanità ci sono i comitati di partecipazione, previsti dall’Art. 24 della L.R. 13/2003, che, per motivi diversi, funzionano poco e male: con resistenze da parte delle Aziende Sanitarie e collaborazioni non sempre coerenti tra le diverse realtà dell’associazionismo che le compongono. Per il sociale le indicazioni regionali rimangono in mano all’attuazione nei territori, con una variabilità poco accettabile.
Due Delibere della Giunta Regionale del 2015 (la 110 e la 111) hanno dato indicazioni abbastanza precise e, in teoria, vincolanti, sull’integrazione tra sociale e sanitario e anche per favorire la costituzione di “tavoli” aperti di partecipazione… nella pratica solo in pochissimi territori c’è qualcosa che “assomiglia vagamente” a quanto previsto dalle norme regionali.
Tema collegato alla partecipazione è quello della “conoscenza”. Le informazioni ci sono e, almeno in parte, sono anche disponibili, ma sono gestite da soggetti diversi in maniera difforme e non coordinata, per cui i cittadini e le associazioni di tutela dei diritti fanno fatica a reperirle. Data questa situazione i cittadini possono e devono pretendere una fonte unica, certa, facilmente identificabile, da dove poter attingere con immediatezza al maggior numero e alla migliore qualità di dati e informazioni che riguardano la salute, sanitaria e sociale, i servizi e gli interventi, sanitari e sociali, i percorsi assistenziali…
Se si ritiene utile metto a disposizione la mia conoscenza e la mia esperienza, oltre a qualche residua idea di miglioramento, per l’integrazione sociale e sanitaria.
Condivido pienamente. Si parla sempre più della necessità di rafforzamento dei servizi territoriali a assistiamo invece al continuo svuotamento dei distretti sanitari e ambiti sociali, quest’ultimi ormai relegati a semplici attuatori di politiche che vengono dall’alto