Si dice e si scrive spesso che il “pellegrino in cammino” sia una metafora della vita. È una figura retorica un po’ abusata, soprattutto da quando i “cammini” hanno cominciato ad essere “di moda”, ma c’è del vero. Ho, abbiamo sperimentato tante volte, sia in cammini lunghi che in cammini brevi, i parallelismi e le interazioni tra “cammino e/è vita”. Una lunga tradizione spirituale, trasversale a più religioni, ci tramanda il “pellegrinaggio” come immagine e specchio della vita: la partenza, la separazione, il movimento, la direzione, la solitudine e gli incontri, le relazioni, l’orientamento, le tappe, gli spazi e i tempi, lo spazio e il tempo, l’ambiente e la natura, lo zaino e la casa…
La casa per il “pellegrino in cammino” ha un significato particolare… si porta il necessario nello zaino, ma rimane presente e forte il bisogno ed il desiderio di essere accolti, alla fine di una lunga e faticosa giornata, in un “riparo” sicuro e accogliente, da cui ripartire riposato e rinfrancato il giorno dopo.
La recente e attuale esperienza di “ospitaliero” volontario in un ostello a donativo della Via Francigena[1] mi ha fatto riflettere come anche questa sia una metafora della vita e, di più, ho realizzato come siano due rappresentazioni (e dimensioni) complementari della vita di una persona: ognuna e ognuno di noi è pellegrino… ogni pellegrino incontra un ospitaliero… ognuna e ognuno di noi può (e forse deve) essere un ospitaliero.
La vita dell’ospitaliero, come quella del pellegrino, è una vita “normale”, fatta di routine e quotidianità, in cui capitano imprevisti ed occasioni, in cui si vivono rischi e opportunità, difficoltà e gioie. Potrei raccontare (ancora poche, ma già abbastanza) situazioni concrete, esperienze e “immagini” che hanno caratterizzato la mia prima volta da ospitaliero, ma dalla settimana sono nate riflessioni e “rappresentazioni” che, forse, vale la pena di raccontare.
Scrivo solo di Charles, diciottenne pellegrino svizzero, partito dalla sua casa e diretto a Roma, capitato per caso(?) davanti all’ostello all’ora di pranzo (e mentre stavo scrivendo queste righe). Vede la porta spalancata, entra. Chiediamo: Un po’ d’acqua? Un frutto? Risponde chiedendo quanto manca per Lucca e se li c’è ospitalità per dormire, se c’è un negozio di alimentari lungo la strada…
I km sono 16, non ci sono negozi ed in questo periodo è difficile trovare alloggi per pellegrini a Lucca… Faccia sconsolata e, forse, un po’ rassegnata… Anna ha fatto la pizza e c’è anche Stefano, un abitante del paese che conosce storie e cultura del posto e ha a cuore la promozione del territorio. Lo invitiamo a sedersi e a mangiare con noi, a bere il vino che ha fatto Stefano, a prendere il caffè e il dolce (sempre di Anna), la toilette… cerco per lui una sistemazione per dormire oggi, dopo diversi tentativi la trovo, un po’ oltre Lucca (grazie anche al sopralluogo che, con mia moglie Cinzia, ho fatto poco più di un mese fa, a piedi, da pellegrini, su queste tappe della Via Francigena)… Charles è visibilmente contento, tranquillizzato e incoraggiato… sembra non voglia ripartire, ci scambiamo saluti cordiali e affettuosi… Anna gli dà una banana, per la merenda… lo “lasciamo andare”. Quanto è durata l’“accoglienza”? Un’ora, un’ora e mezza… secondo me “sufficiente” a spiegare il senso dell’ospitalità pellegrina.
Il pellegrino e l’ospitaliero si incontrano sulla “porta” dell’ostello… ma come può essere una porta? Come può essere la porta della nostra casa?
Sbarrata, serrata, chiusa, socchiusa, semiaperta, aperta, spalancata… ecco… la porta dell’ostello è “spalancata”[2]…
Spalancare è un’azione: portare alla completa apertura, che può essere impegnativa e che ha delle conseguenze; è anche uno stile: fa circolare l’aria (altrimenti stantia) nella casa (non bastano le finestre aperte), permette di avere un orizzonte ampio, facilita l’entrata e l’uscita.
La porta serrata o chiusa manda il messaggio che non si vogliono intrusi; la porta socchiusa o semiaperta non invita ad entrare, suggerisce una dimenticanza o una titubanza; la stessa porta aperta è un messaggio di disponibilità, ma non “sufficiente”… solo la porta spalancata è un evidente invito ad entrare, a sostare…
Di metafora in metafora, tra narrazione e realtà, mi piace pensare a tre dimensioni qualificanti la vita dell’ospitaliero che vive con la porta spalancata.
È “sentinella”. L’ospitaliere non è armato, anzi… anche perché la porta spalancata è un segno di pace, ma:
– osserva… non è fermo o inerme, esamina e analizza cosa succede sul territorio, lo conosce e lo considera;
– vigila… è attento a ciò che succede intorno a se, è sveglio e accorto, pronto ad intervenire/accogliere;
– attende… sia nel senso di stare in attesa che nel senso di “eseguire”;
– aspetta… anche qui in una doppia dimensione, sia statica… rimanere in sospensione, che dinamica… essere preparato;
– è paziente… la pazienza è ancora una qualità, forse ancora di più che in passato, a causa della frenesia dei nostri tempi o delle “chiusure forzate”.
C’è un’altra caratteristica dell’ospitaliere “sentinella”, che è in comune con la seconda dimensione:
– desidera… sperimenta il desiderio della persona che arriva anche se (o proprio perché) imprevista (non sa chi arriverà), non conosciuta, non programmata… si prepara per il suo arrivo.
È “ospitale”. Bisogna essere pronti per il pellegrino sconosciuto e, citando una definizione da vocabolario, essere “cortesemente affabile e premuroso nei confronti dell’ospite”.
Le caratteristiche di questo tipo di “ospitalità” si sviluppano su più direttrici:
– offre riparo, rifugio… cioè, in buona sostanza, conosce e sa riconoscere le fragilità del “pellegrino” e se ne fa carico a partire dai bisogni primari… sete, fame, stanchezza, freddo, caldo… e delle “emergenze”;
– rispetta la persona che incontra… ossia riconosce la sua alterità e la sua dignità, non seleziona, non discrimina, non “classifica”, non giudica;
– è presente… ovvero “c’è”, ascolta, partecipa, accoglie… ma molte volte coniuga “semplicemente” il verbo “stare” o, come testimonia mia moglie Cinzia, il verbo “sostare”… nella sofferenza, nella fatica, nel dolore, nella speranza, nel conforto, nella fiducia;
– si prende cura… che è difficilissimo perché il servizio alla persona, il lavoro di cura è tanto indispensabile quanto impegnativo, tanto fondamentale e rilevante quanto umiliato e svilito nella nostra società; il “bello” del prendersi cura è il suo “orizzonte” perché risponde ai bisogni… e anche ai desideri;
– lascia andare… perché ogni pellegrino continui il suo cammino, è bello incontrarsi, “stare” insieme, ma la “strada chiama” ed è giusto così, sapendo che rimane il ricordo, la memoria e, in qualche caso anche un “legame”.
Perché anche in questo caso una caratteristica dell’essere “ospitale” collega questa dimensione alla terza:
– accompagna… in una duplice accezione: nell’accogliere “condivide il pane” e non solo… quando il pellegrino va via, segue o può seguire (da lontano)… mantiene o può mantenere contatti, relazioni, legami.
È “custode”. Si chiude un po’ il “cerchio” perché l’ospitaliere è attento, mantiene e conserva in modo attivo… appunto:
– custodisce… i valori, dell’umanità, delle relazioni, della convivenza, dell’accoglienza, dell’armonia con il “paesaggio” (che “contiene” sia gli “ambienti naturali” che i “luoghi”)…
– tutela… la/le fragilità nella consapevolezza e nella convinzione che “garantire” e “rinforzare” le persone che fanno più fatica fa stare meglio l’intera collettività;
– sostiene… nel senso che “regge”, accudisce, provvede, ha cura, promuove… tutti “sinonimi” di “governa”, una bella parola troppo spesso stravolta dal potere[3].
Mi auguro di poter continuare, e mi impegno per il futuro, ad essere pellegrino e ospitaliero… non solo come metafore o come “esperienze”, ma come rinnovata progettualità che si realizza nella globalità della vita… come persona e insieme.
“la porta è aperta a tutti, malati e sani,
non solo ai cattolici, ma anche ai pagani,
ebrei, eretici, oziosi e vanitosi…”
(manoscritto del XIII secolo conservato nella Collegiata di Roncisvalle)
[1] Insieme ad Anna, nell’ostello “Casa del Pellegrino” di Valpromaro (LU), gestito dall’associazione “Accoglienza Pellegrina” https://www.accoglienzapellegrina.org/
[2] La foto è la porta, spalancata, dell’ostello “Casa del Pellegrino” di Valpromaro (LU)
[3] N.d.R. Lo so, la parola “custode” e le sue caratteristiche, evocano l’angelo, ma il collegamento con il cammino c’è… Michele Arcangelo da millenni è venerato dai credenti ebraici, cristiani, musulmani, quale difensore contro il maligno, contro le malattie e le pestilenze, il suo compito è quello di proteggere e difendere le persone, custode di giustizia e verità.